Le felici coincidenze

Parlare di Davide mi riesce sempre difficile e mi spaventa anche un pochino perché lui non c’è per rispondermi, bacchettarmi e dirmi – forse – che non capisco niente. Non che sia successo spesso ma, malgrado la grande e affettuosa amicizia che ci legava, dovevo stare sempre attenta a non dire “banalità”. Davide aveva orrore del banale. Era lucido, intelligente, acuto, curioso e spiritoso. Si interessava di ogni cosa della vita ed era disponibile ad ascoltare le opinioni di tutti (purché non “banali”), era sempre desideroso di conoscere e sperimentare. Esprimeva la sua creatività in ogni campo artistico e non. Nella musica, negli oggetti sonori, nella fotografia e fotografia pubblicitaria, nelle performances, nel design (mobili e oggetti per casa propria) ma anche nel giardinaggio e nel proprio abbigliamento.

Mi chiedete quando ci siamo conosciuti. Non lo so, non ricordo, a volte mi sembra di averlo sempre conosciuto, ma non è vero. Negli anni settanta andavo alle feste in casa sua in via dell’Orso. Più o meno tutte le sere la loro casa era aperta a tutti, una marea di persone andava e veniva, fiumi di bevande e musica a palla. In quella casa enorme c’era un solo bagno senza porta, chiuso solo da una tenda…. Davide aveva ancora una lunga coda di cavallo ma dopo che una sera, sotto casa sua, uno scippatore lo aggredì e gli strappò coda e i capelli, si fece rasare a zero.

La nostra amicizia si fece più stretta dopo i concerti – performances eseguiti con Juan Hidalgo e Walter Marchetti e organizzati da Gianni Sassi per Milano Poesia nel 1987 alla Rotonda della Besana e all’Ansaldo.

Da allora Davide frequentò regolarmente la galleria. Arrivava con la sua macchinona americana – una Dymler d‘epoca mi pare, con cui – secondo Ines – viaggiava lentissimo. Non potevo non osservare con attenzione il suo modo di vestire: era sempre curatissimo, personale e bizzarro. Una volta seduti nel mio studio con un caffè o un bicchiere in mano, cominciavamo a chiacchierare per ore. Si parlava un po’ di tutto: di progetti, arte, fatti del giorno o personali, parlavamo di fiori e – di tanto in tanto – spettegolavamo un po’, ma l’argomento principale divennero presto le coincidenze sia nei nostri sogni che nella realtà.

La prima mostra nella mia galleria è stata quella dei Cieli” nel febbraio 1998. Venivano esposti due cicli di lavoro: “Trittici del cielo” e il ciclo Disegnare l’aria”. I trittici erano realizzati con la Polaroid grande formato messa a sua disposizione dalla Polaroid stessa, che in seguito gli conferì il primo premio. In tutti e due i lavoro la ricerca sul caso e sulla simultaneità si era fatta più evidente. Osservando le fotografie di cieli di notte e di giorno trovate sia sui libri e atlanti consultati nella biblioteca del padre come pure in volumi sulla fotografia d’arte, Davide ebbe modo di constatare che alcune immagini scattate in luoghi e in epoche diverse erano molto simili. Ne selezionò sempre due, le rifotografò con la Polaroid grande formato ne aggiunse una terza, sua .( Ho scoperto molto più tardi che nei trittici aveva trattato molti altri temi, molti dei quali vennero esposti per la prima volta in Italia da Elio Grazioli nel 2011 a Reggio Emilia. (Trittico delle torte, dei bombons, del corpo, delle membra, delle tavole imbandite, degli incappucciati e così via. L’ultimo lavoro che abbiamo anche esposto noi a Milano erano “5 trittici in morte del padre”.

Il ciclo “Disegnare l’aria “ è la casualità che la fa da padrone. Con soli tre scatti Davide aveva fotografato oggetti vari: corde, bacchette, rami, pezzi di stoffa, palline che, lanciati in aria avrebbero disegnato il cielo. Le immagini sarebbero state casuali. Davide diceva inoltre che considerava questo lavoro anche un omaggio all’amico Bruno Munari che, negli anni cinquanta, aveva lanciato da una torre pezzetti di carta di forme diverse con l’intento di “far vedere l’aria”. La sua era una azione analoga e opposta, lui disegnava il cielo.

Ma la mostra di maggior impegno e che ho seguito più da vicino fu quella successiva quella delle “Polveri”. Ormai parlavamo spesso delle coincidenze della vita, ci raccontavamo aneddoti e sogni relativi all’argomento. In questo ciclo di lavori Davide intendeva arrivare ad eliminare o quasi l’intervento del fotografo. Non doveva essere il fotografo a scegliere una inquadratura, sarebbe stato il caso a fissare l’immagine di queste polveri lanciate in aria. Polveri d’argento, d’oro e di scaglie di pietre preziose e semi-preziose. L’operazione era così concepita: appoggiare le polveri o i frammenti di pietre su un telo di gomma fissato su una branda, la macchina fotografica restare fissa e, tirando da sotto con forza il telo di gomma, far volare in aria le polveri. L’apparecchio fotografico avrebbe fissato il volo coì come il caso voleva. Il lancio ma soprattuttonle pietre e le polveri avrebbero sprigionato energia. Lui stesso, fotografo solo il un tramite vissuto attraverso una infinita serie di coincidenze, non l’autore.

Sarebbe partito al più presto per Jaipur, famoso centro internazionale di tagliatori di pietre preziose e semipreziose, dove sperava di trovare le scaglie o frammenti di scarto necessari per il lavoro che aveva in mente. Tornò felice. Nel primo bar aveva chiesto a un avventore se per caso potesse indicargli un tagliatore, e chi non era l’avventore se non il più rinomato tagliatore del posto? Questi, entusiasta dell’idea di Davide, si mise a sua completa disposizione. Altra felice coincidenza.

Gli inviti alla mostra sarebbero stati stampati in argento su un cartoncino blu notte e Francesco Saba Sardi avrebbe scritto per l’occasione un bellissimo testo poetico. Al momento di imbustarli anche Davide venne a dare una mano. In quel momento nacque l’idea di mettere negli inviti un po’ di polvere d’argento per disegnare i vestiti e le case dei destinatarii. Molto successo ma anche lamentele dalla parte di chi si vedeva costretto a spazzolare tutto. (Lo stesso impiegato delle poste qualche giorno dopo mi riconobbe e mi minacciò, ridendo,di mandare alla galleria il conto della tintoria.)

Con Davide era bello non solo avere il suo parere su i miei progetti, ma anche ridere e giocare

Solo in seguito dopo la sua improvvisa tragica morte, nell’organizzare con Ines le altre sue mostre e concerti, ebbi modo di conoscere ulteriori sue ricerche di cui però parleremo in un’altra occasione.

 

 

Per Ultrafilosofia – Milano, Giugno 2013

 

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L’aura delle coincidenze

Dialogo di Toto Roccuzzo con Davide Mosconi a proposito dei suoi Trittici Fotografici.

 

Mi sveglio una mattina e penso intensamente a Emilio, un amico che abita quattrocento chilometri più a sud di dove mi trovo. Continuo a pensarlo con intensità tale che afferro la cornetta e lo chiamo. La moglie mi dice che è in ospedale perché sua madre sta male. Finalmente lo trovo. Lo raggiungo proprio un minuto prima che decida se far operare o no la madre alla quale hanno diagnosticato un tumore al cervello. Ed Emilio mi dice: “Ho deciso la faccio operare”. Io lo conforto: “Andrà tutto bene”. Ed è andata bene, la madre di Emilio vive ancora.

Quante volte vi è capitato di pensare a una persona che non vedete da anni e, all’improvviso, eccola che si materializza. La chiamano telepatia. O luccicanza. Shining, come dicono gli inglesi. Stanley Kubrik ha intitolato così uno dei suoi capolavori: un bambino riesce a salvare la pelle – sua e della madre – grazie alla capacità di guardare oltre le regole del tempo e dello spazio, comunicando a distanza con la forza silenziosa della mente e leggendo nel pensiero la follia omicida che si è impossessata del padre. Per rilevare un punto di vista (e dibattere) sul tema delle coincidenze Charade incontra Davide Mosconi, artista diviso a metà tra immagini e suoni. Sulle ali di Pindaro ci addentriamo nella luccicanza conversando di coincidenze, aure, sincronismi, casi, telepatie e sincronicità. La buonanima di Jung non se ne abbia a male (piuttosto s’accomodi e favorisca) se discutiamo di cose tanto impalpabili a Milano davanti a un peccaminosissimo spaghetto condito con la bottarga essiccata dai fratelli Adelfio di Marzameni e con una salsa ai capperi e olive che Carlo Hauner, un signore nato a Brescia prepara a Salina. Dio gliene renda merito, a tutti e due, anzi a tutti e tre, Jung compreso. Io trito il prezzemolo e Davide spreme sei teste d’aglio perché dice che ha la pressione alta. Mescoliamo pasta e immagini. Arriminamu. L’immagine è percezione, ma anche idea, illusione. La pasta è in tavola. Precisa. Al dente. Saporosa.

Parliamo di numeri, diamo i numeri. Anzi ne diamo uno solo: tre. “3”. È il numero perfetto, dantesco, magico. Tre sono i tempi ritmati del valzer: un-due-tre un-due-tre. Terza è la soluzione che compone ogni dualismo. Tre è terzina, tre è il terzino sinistro. Tre è il gioco delle tre carte. Tre oro vince, tre oro perde. Faittes vos jeux. Tre è il caso che, ridotto a unità governa il mondo. Lo conferma la parola stessa, tre immagini compongono un trittico. Come risultato tre a uno è il risultato perfetto. Anche i trittici mosconiani sono uni e trini. Nascono da un’idea e dalla ricerca. Iniziata per caso.

D.M.:”Nel 1982 ho appena raccolto le prime intuizioni sui trittici. Sono a New York quando incontro un libro, Double Take – Doppia presa – scritto da Richard Whelan. Lo divoro, pagina dopo pagina, come folgorato. Whelan sta cercando, mi dico, le stesse cose che cerco io. Siamo sincronici”.

T.R.:”Scusa, sincronici in che senso?”.

D.M:”Anche Whelan è a caccia di coincidenze”.

T.R.:”E allora?”.

D.M.:”Rintraccio Whelan e, siccome sto per partire e lui mi dice che deve venire in Italia, lo invito cena a Milano. Arriva. Si toglie il cappotto. Si siede in poltrona. E attacca a parlarmi di suoni. Mi chiedo: ma come? Un uomo che cerco per dialogare sulle immagini mi parla di suoni? Il suo libro parla di immagini, ma da come disserta di suoni, Whelan si occupa anche di musica. Come me. Improvvisamente ho la folgorazione, l’abbaglio. L’uomo che mi sta di fronte è il mio doppio, l’altro di me. In due posti diversi e nello stesso momento, due esseri umani che si occupano delle stesse cose iniziano una ricerca analoga. Non è solo una coincidenza, ma un trittico di coincidenze. Da quel giorno io e Richard percorriamo due strade parallele tenendoci miracolosamente per mano”.

T.R.:”Folgorazioni come elezioni di affinità, dunque intense come luci che abbagliano. E tu come hai letto quella coincidenza?”.

D.M.:”Non tanto il fatto mi stupiva, quanto il modo in cui accadeva. Niente è mai vero, nulla da’ sicurezza perché tutto scorre e si muove in continuazione. Se lo stato mentale dell’uomo è dinamico, nell’istante in cui la coincidenza t’abbaglia, devi fermarti e immortalarla. Come in un flash. La vita di ogni essere umano è costellata di segni da leggere. E quando Richard mi ha parlato per prima cosa del suono, io sono stato abbagliato. E ho cominciato una ricerca che potrebbe non avere fine: io cerco due artisti che, in tempi diversi e senza conoscersi, hanno visto la stessa inquadratura. Ritrovo le due immagini e questo abbaglio produce la mia terza foto che è come un omaggio al ritrovamento della coincidenza. Nel trittico io non fotografo, ma sono fotografato”.

T.R.:”Fotografato? In che senso?”.

D.M.:”Io sono solo il veicolo di un’illusione”.

T.R.:” E di quale illusione ti fai veicolo?”.

D.M.:”Vedi noi creiamo di fare, ma siamo fatti. Crediamo di scrivere, ma siamo scritti. Crediamo di immaginare, ma siamo immaginati. Siamo abbagliati, ma non sappiamo interpretare la luce delle aure che ci circondano. Non la utilizziamo per vivere meglio, per rendere positivo e produttivo il nostro ego”.

T.R.:”Tu come sei riuscito a rendere positivi i tuoi abbagli?”.

D.M.:”Rispondo con le parole di Elémire Zolla a proposito dell’aura delle coincidenze: <<Come nella memoria si costellano fatti lontani fra loro formando mulinelli nel flusso dei ricordi, così capita nella vita che si aprano vortici dove roteano svasati in una coincidenza, in una coincidenza, in una simultaneità inspiegabile, elementi che dovrebbero essere separati dal tempo e dallo spazio. Ne nasce, in chi vive in quegli attimi, una meraviglia pura. Un aura sprigiona da quelle sovrapposizioni>>. Sostanzialmente in queste parole è racchiuso il fondamento del mio lavoro sui trittici”.

T.R.:”Bella Maestro! Mi consenta un’ultima domanda: tre per tre?”.

D.M.:”Trentatrè!”.

 

Aprile 1995

Il canto atmosferico del “diafono urlatore”

Davide Mosconi ha catturato (prima che fosse messo a tacere) il suono dei corni da nebbia, antichi sistemi di orientamento

 

Davide Mosconi è un compositore italiano non nuovo a operazioni concettuali di valore tanto provocatorio quanto espres­sivo. Di ritorno da un viag­gio in Camargue racconta di aver comprato lo strumento musicale più grande che sia mai stato costruito. Un cor­no da nebbia in disuso chia­mato dai francesi diaphone urleur, «diafono urlatore». E lo trasporta a Trieste per farlo restaurare quasi fosse uno Stradivari. Mosconi racconta anche come mai un homo metropolitanus, qual egli è, si sia potuto appassionare al suono e alla storia dei dia­foni.

Per secoli lungo il Canale della Manica in prossimità delle scogliere inglesi, sulle coste scozzesi all’altezza del Canale di San Giorgio, più su nel Mare d’Irlanda vicino all’Isola di Man e nel Canale del Nord (ma anche lungo i litorali di Germania, Francia e Portogallo) l’unico sistema di orientamento per la navi­gazione nei tratti di mare avvolti dalla nebbia è stato garantito da corni gigante­schi la cui voce è in via d’e­stinzione. Sparati nell’oscuri­tà e dosati a intervalli rego­lari, quei suoni erano in gra­do di supplire alla luce in­sufficiente dei segnali lumi­nosi. Per la loro funzione di complemento i corni veniva­no alloggiati nelle vicinanze dei fari. Il suono veniva pro­dotto da macchinari di gran­di dimensioni attivati attraverso notevoli masse d’aria compressa, ed era amplifica­to da megafoni di vaste pro- porzioni. L’energia fornita da motori diesel serviva a pompare l’aria nei serbatoi alla pressione atmosferica desiderata. A quel punto si metteva in moto un pistone di un metro di diametro che, attraverso un meccani­smo a stantuffo, in tutto si­mile a quello della sirena, generava il suono.

Gli strumenti — i diafoni — erano orientati verso il mare e il loro “canto” pote­va essere ascoltato fino venti, a volte trenta chilo­metri di distanza: le onde sonore, riflesse dalla superfi­cie del mare, venivano tra­sportate più lontano dalle particelle di umidità della nebbia.

Entro la fine del 1992 questo sistema di segnalazio­ne acustica marittima verrà disattivato e sostituito pro­gressivamente con un più moderno sistema di orienta­mento basato sui rilevamenti dei satelliti. Il suono dei cor­ni da nebbia non accompa­gnerà più la navigazione nei mari del Nord e si trasfor­merà in una piccola, ma si­gnificativa parte della cultu­ra materiale europea appar­tenuta a un passato glorioso, a figure eroiche di capitani, ai gesti quotidiani di pesca­tori e marinai.

E chi come Davide Mo­sconi sui corni da nebbia ha lungamente sperimentato, non poteva non dedicarsi al recupero di questa “voce” che si spegne lentamente.

Dice Mosconi: «Mi è sem­brato doveroso dedicarmi a questo bene che rischiava di estinguersi nella memoria della collettività». L’idea di registrare i suoni dei fari scozzesi, inglesi e irlandesi poco prima del loro definiti­vo silenzio, è nata dall’in­contro tra Davide Mosconi e Giulio Cesare Ricci, proprie­tario della Foné, una casa discografica italiana che si distingue per recupero di atmosfere originali, ottenute grazie a tecnologie sofisticate. Racconta Ricci: «Dopo lunghe trattative con la Ma­rina militare inglese, siamo riusciti a ottenere le autoriz­zazioni per registrare gli ul­timi canti dei diafoni. Ab­biamo raccolto centinaia di suoni battendo in lungo e in largo le coste anglosassoni. Determinante è stata la uti­lizzazione di microfoni spe­ciali progettati per la Nasa».

I due italiani, il musicista e l’esperto di registrazione, ponendosi a distanze diffe­renti dalle sorgenti sonore, hanno immaginato di trovar­si in un anfiteatro fantastico e di poterle ascoltare come da una mongolfiera posta al­l’altezza di cinquemila metri. E il singolare concerto otte­nuto dalla ricomposizione in studio dei singoli segnali re­gistrati si è trasformato in un documento irripetibile, di alto valore poetico, storico e musicale.

Affermano gli autori del­l’originale recupero: «L’inci­sione è stata intitolata Musi­ca dell’anno zero — Canto dei diafoni. Viene proposta al pubblico internazionale come una musica appartenu­ta a un territorio che diviene reperto attivo, un bene col­lettivo salvato e da conser­vare».

Il Canto dei Diafoni non è destinato a rimanere solo un concerto sui generis che può essere già ascoltato su compact disc, ma a trasfor­marsi in un progetto (pre­sentato recentemente alla Comunità economica euro­pea) che si propone come punto d’arrivo la realizzazio­ne di una pubblicazione ce­lebrativa che combini testi­monianze dirette, interviste, riproduzioni di stampe d’e­poca, quadri e passi letterari per preparare e accompagna­re l’ascolto. Non per mettere in discussione l’utilità dei sa­telliti e i meriti del progres­so, naturalmente, ma perché c’è chi ritiene privo di poe­sia un mondo nel quale non trova più spazio (e non rice­ve più omaggio) nemmeno la memoria di una tradizio­ne che scompare in silenzio, romanticamente.

 

Per IL SOLE-24 ORE, 25 ottobre 1992

 

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